L’Italia dice basta alle agenzie di rating private. Una presa di posizione discretamente netta, che il governo Letta porterà dinanzi al G20 in programma al fine di rivalutare il ruolo delle principali società di valutazione.
Una presa di posizione che i più critici potrebbero interpretare come una sorta di azione difensiva contro i continui attacchi di Moody’s o di Standard & Poor’s (che ha condotto il rating sui titoli del Tesoro tricolore a due soli gradini dal livello spazzatura), ma che sembra in realtà essere la sostanziale formalizzazione di un atteggiamento ben remoto nel tempo.
D’altro canto, c’è anche chi sostiene che i continui declassamenti dei rating sovrani da parte delle agenzie sia figlia di quanto accaduto durante i gravi crac finanziari del passato (Lehman Brothers & co.), quando le stesse agenzie furono accusate di non aver fatto abbastanza per avvisare gli investitori del pericolo incombente.
Infine, c’è chi ritiene che puntare il dito sulle agenzie di rating sia oggi inutile o, quanto meno, tardivo. I mercati finanziari (che godono di una intelligenza propria, ancora da decifrare) sembrano infatti ignorare gran parte degli allarmi lanciati dagli stessi osservatori: non a caso, nelle ultime settimane, non certo favorevoli per l’Italia, lo spread tra i Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi è rimasto sostanzialmente su livelli minimi da due mesi, mentre il rendimento di un titolo del Tesoro italiano a cinque anni è calato al 3,1 per cento, poco sopra al livello del bond governativo americano a dieci anni (attualmente intorno al 2,6 per cento).
Eppure, il rischio che il futuro dell’Italia possa dipendere effettivamente dalle agenzie di rating è ben evidente. Se infatti il nostro Paese dovesse subire un nuovo declassamento, sarebbe pressochè costretta ad accettare un finanziamento da parte della troika, accompagnato da un piano di aggiustamento monitorato da Bce, Fmi e Commissione Europea. In altri termini, l’Italia verrebbe commissariata, esattamente come accaduto con la Grecia.